Mi era già capitato qualche altra volta di parlare nell’Aula Magna del Visconti, il liceo dove insegno da molti anni. La prima occasione fu, una decina di anni fa, quella della presentazione di una mia antologia alla quale tenevo molto: Poesie italiane del Novecento edita da Archimede nel 1995. Avevo provato a “raccontare” la poesia del secolo scorso come se fosse uno splendido romanzo, una lunga storia piena di personaggi. C’era Giulio Ferroni, anche allora, a parlare, come ora. L’anno dopo venni trasferita al Visconti e il Collegio Romano diventò il teatro delle mie fantasie narrative oltre che del mio lavoro quotidiano.
Questa volta si è parlato dell’Archivio segreto in cui compare questo antico palazzo popolato dei personaggi e delle storie di oggi e di ieri. Rosario Salamone ha introdotto, non tanto e non solo come preside del Visconti, quanto come attento lettore della letteratura attuale. Hanno poi parlato Rino Caputo, Giulio Ferroni e Walter Pedullà. Proverò a riferire quanto è stato detto, anche se tardivamente, per quanto me lo consentono la memoria e gli appunti presi.
Il tema del “capriccio” urbano – sintetizzato dal quadro di Pannini in copertina – della casualità apparente del girovagare, coincidente con una modalità di lettura che può essere anch’essa casuale, senza inizio né fine, sono stati analizzati da Rosario Salamone insieme al procedimento divagante della scrittura, al continuo conversare dei personaggi, in un mondo in cui tutto è animato, dalle pietre agli alberi, e come calato in una dimensione che egli ha definito di “panpsichismo”, comunque di contatto religioso con la realtà. Caputo, che si aspettava l'”aurea mediocritas” dei tanti libri occasionali di oggi, ha detto invece cose assai lusinghiere: prima di tutto di essere rimasto sorpreso dalla consapevolezza letteraria della scrittura; poi dalla scelta del prosimetro, cioè della prosa mista al ritmo e alla rima della poesia; dal rapporto dichiarato con la tradizione; dalla scelta “di gusto” contro la standardizzazione e la volgarizzazione dei linguaggi attuali; dall’assortimento delle storie di uomini e donne e delle loro passioni d’amore. A Ferroni è piaciuto rievocare il suo liceo che tanta parte ha avuto nella sua storia personale e tanta ne ha nelle mie storie, come lui stesso ha sottolineato, non solo nell’Archivio segreto, ma anche nel libro precedente, Una ragazza che è stata mia madre. Soprattutto ha trovato l’orizzonte della scrittura femminile evidente sin dall’epigrafe, la dedica a Shaharazade, archetipo dell’arte del narrare. Ha parlato della cosiddetta autofiction, cioè della finta autobiografia – oggi piuttosto in voga – che racconta di una giornata singolare, di una strana passeggiata durante la quale il sogno si mescola alla realtà e ne diviene una chiave di lettura. Ha parlato ancora dell’indeterminatezza della dimensione onirica, dell’alterazione dei rapporti temporali e della scelta di uno spazio come Roma per rappresentarli in modo efficace: della gatta di via della Gatta, per esempio, e del suo valore simbolico. Ha parlato della prosa rimata, anche lui, e della totalità naturale in cui l’io della protagonista cerca di immergersi per superare i limiti della sua determinatezza. Ha citato Annamaria Ortese come un possibile riferimento per il modo narrativo dell’Archivio segreto, sospeso tra l’onirico e il fantastico. Ha citato Pirandello, per i temi del mondo teatralizzato, della teosofia, del libro alchemico in cui alla fine della mia storia si concentra la conoscenza del mondo, l'”archivio segreto”, l’antro platonico in cui si cela il cuore della realtà.
Straordinario, amici miei (voi soliti venticinque…)!
Li ho ascoltati con attenzione e debbo dirvi che mai avevo avuto così precisa la sensazione di essere riuscita a dire, a raccontare davvero quel che avevo in mente…
Poi è venuta la volta di Walter Pedullà che ha messo in evidenza alcuni aspetti della narrazione, che, almeno nelle mie intenzioni (si sa che non sempre le intenzioni si realizzano), esprimono proprio quanto “il cuore ditta dentro”: il modo antinaturalistico, il trattamento del tempo, l’importanza dei dettagli. Ha ricordato quanto diceva Paul Bourget a proposito del semplice resoconto di una giornata che, nella sua apparente insignificanza, può diventare esso stesso un romanzo. “Ma si tratterebbe di un’epica della realtà” ha aggiunto “o piuttosto di un’epica dell’esistenza?” Il recupero del senso attraverso i dettagli su cui indugia lo sguardo dei personaggi, in una narrazione sospesa tra la realtà e il sogno, tra il notturno e il diurno, fa propendere per la seconda via, secondo Pedullà, che ha ricordato Antonio Pizzuto e il suo modo di cogliere brandelli di senso nell’istante e nei particolari ingigantiti e apparentemente insigificanti. Ha colto, Pedullà, la volontà di superare gli stereotipi linguistici nell’attenzione rivolta ai giovani e alla loro morte annunciata e a volte realizzata attraverso il suicidio.
Come commentare, a mia volta, quanto è stato detto in modo così straordinario e generoso da Salamone, Caputo, Ferroni e Pedullà a proposito dell’Archivio segreto?
Posso solo dire che grande e consolante è il piacere di interloquire con i propri simili, di essere riconoscibili e riconosciuti in un paese di ciechi e di sordi, dove l’unico modo di scrivere (e quindi di pensare e di “esserci”) sembra essere diventato quello a una sola dimensione, senza nessuna possibilità di interpretazione e di riflessione. Roma è la metafora più evidente di quanto la realtà non sia altro che un libro da sfogliare, da leggere, da analizzare e comprendere anche nelle parti non visibili, tra le righe non scritte. Attraversare i limiti dell’io, della logica, della presunta razionalità, dialogare con altre specie e altre famiglie, con altri punti di vista per cogliere l’implicito dietro la superficie di ogni cosa. Essere qualcun altro, insomma, nell’epoca di Narciso allo specchio: questo è quanto vorrei continuare a fare e quanto vorrei che facessimo insieme per condividere un cammino comune. L’unica ragione che giustifica un altro libro nella folla di migliaia di libri.
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