Uno studio recente sulla letteratura liberty a Roma

Si trova già in libreria un bel volume di autori vari, Il Palazzo del Tritone a Roma, promosso da Sorgente Group, da Valter e Paola Mainetti, e pubblicato da De Luca. Vi propongo in lettura il mio breve saggio sulla letteratura liberty a Roma, scritto con l’intento di dimostrare quanto la letteratura sia un’arte anch’essa, senza ombra di dubbio, come ben sapevano gli scrittori di fine secolo in una vasta area europea di cui Roma entra a far parte dal momento in cui diventa capitale d’Italia: un discorso tutto da rifare in questi nostri tempi difficili dominati dal demone commerciale.

ANNA (Annarosa) MATTEI

Letteratura liberty a Roma
Il passaggio dal simbolo all’allegoria: alle origini del liberty
Il rapporto tra bellezza, arte e cultura è segnato spesso da visioni contrapposte della realtà, una oggettiva e dogmatica, apparentemente propria della scienza, e un’altra, soggettiva e relativistica, che sembra propria dell’arte e della ricerca più avanzata. Nella prima metà dell’Ottocento si ha l’impressione che la via del realismo sia obbligata per l’artista che intenda legittimare il suo ruolo illustrando i progressi e i problemi della società europea. Ma già a metà secolo, in Inghilterra, il movimento preraffaellita dei fratelli Dante Gabriel e William Michael Rossetti, ispirato agli scritti di John Ruskin, contesta i canoni dell’oggettività, identificati con la bruttezza e il materialismo della civiltà industriale, proponendo il ritorno al bello e alla gratuità del mondo cavalleresco medievale: Ruskin afferma che l’arte è bella quando la mano, la testa e il cuore lavorano insieme. In Francia Thèophile Gautier e il movimento dei parnassiani, ispirandosi alla mitica dimora di Apollo e delle Muse, esprimono la stessa idea dell’arte per l’arte, priva di fini o necessità esterni a se stessa.
Nel 1857 Madame Bovary di Gustave Flaubert e Les fleurs du mal di Charles Baudelaire destabilizzano i principi del realismo suscitando dibattiti, polemiche, processi per offesa della morale. Flaubert non crede in una lettura univoca e oggettiva della realtà che restringe nella visione parziale, frammentaria e limitata dei personaggi. Baudelaire proietta sul mondo esterno i turbamenti dell’io trasformando gli spazi cittadini in eleganti arabeschi allegorici: “Paris change! Mais rien dans ma melancolie n’a bougé! Palais neufs, échaufaudages, blocs,/ vieux faubourgs, tout pur moi devient allégorie,/ et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs”. (‘Tableaux parisiens’, in Les fleurs du mal) Emile Zola ritiene che la scrittura e la narrazione debbano essere uno scandaglio scientifico della società, ma nel 1884, quando ha appena terminato il ciclo dei Rougon Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia nel secondo impero (1870-83), il suo allievo Joris-Karl Huysmans abbandona la via del naturalismo pubblicando A rebours, romanzo simbolista e allegorico. Nella storia l’aristocratico Des Esseintes, in fuga da un mondo e da una società corrotti, si rinchiude in una villa in campagna dove tutto viene da lui concepito e realizzato come opera d’arte, anche il carapace di una tartaruga, che viene cesellato e ricoperto d’oro portando alla morte la povera bestia.
Pubblicato sul «Figaro» del 18 settembre 1886, il Manifesto del Simbolismo di Jean Moreàs afferma che l’arte deve essere “decorativa”, “soggettiva, sintetica, simbolista e ideista”. E un anno prima, in Inghilterra, Marius the Epicurean. His sensation and Ideas, romanzo filosofico di Walter Pater, teorizza il culto della bellezza e i principi del movimento estetico proponendo l’ideale dell arte per il gusto dell’arte: ‘art for art’s sake’. Nel 1891 Oscar Wilde, in The Picture of Dorian Gray, ripropone le riflessioni di Pater, suo maestro a Oxford, scrivendo nell’introduzione che “l’artista è il creatore di cose belle”, che “l’arte non rispecchia la vita ma lo spettatore”, che “tutta l’arte è completamente inutile”. Dorian Gray, come Des Esseintes, si circonda di quadri, oggetti, libri preziosi, si illude di diventare lui stesso un’opera d’arte trasferendo nel ritratto i suoi guasti fisici e morali: i due personaggi diventano paradigmi allegorici dell’autonomia dell’arte rispetto alla natura, alla società, alla vita stessa con cui, anzi, contrasterebbe fino a distruggerla.
Il simbolismo sconfina nell’allegorismo e nell’estetismo già nelle riflessioni di John Ruskin (The Stones of Venise, 1853) e del suo allievo William Morris, che pone le basi del movimento Arts and Crafts opponendo all’industrializzazione il lavoro dell’uomo, dell’artista e dell’intellettuale, nel cosiddetto Gothic Revival che precorre la nascita dell’Art nouveau. I presupposti teorici e i procedimenti poetici del simbolismo sono compenetrati nell’estetismo di derivazione inglese soprattutto per l’assolutizzazione del ruolo dell’arte e per l’importanza che assume l’allegoria rispetto al simbolo.
Negli anni ottanta e novanta le due correnti coesistono e si incrociano con il movimento speculare del naturalismo rappresentando modi complementari di entrare in contatto con le contraddizioni di una società in veloce trasformazione. Secondo i principi del naturalismo l’opera d’arte è un rilievo fotografico della realtà e l’artista è uno scienziato che ne può curare i mali. Il simbolismo parte dallo stesso presupposto analitico ma con l’intento di scoprire il linguaggio nascosto della natura, segni, corrispondenze, analogie che l’uomo civilizzato non sa più intendere. Presunta oggettività nel primo caso, soggettività estrema nel secondo: comunque un tentativo di dialogo con la realtà effettuale. Nel passaggio dal simbolismo all’estetismo scompare questa illusione di contatto e nel dialogo tra l’arte, intesa come finzione totalizzante, e l’indecifrabile enigma della realtà, si propende nettamente per la prima soluzione, sciogliendo i nessi tra il significante e il significato, tra le parole e le cose, liberando l’arte dalla necessità del senso. La letteratura esige “distinzione, fascino, bellezza e fantasia” che solo la finzione, la menzogna dell’arte, possono garantire, come afferma Oscar Wilde in The Decay of Liyng, La decadenza del mentire (1889), opponendosi al realismo che riduce l’arte a imitazione della vita: “La Natura, non meno della Vita, è un’imitazione dell’Arte” è la sintesi paradossale delle sue teorie estetiche.
Con l’estetismo il simbolo diventa allegoria concettuale, rappresenta la forma estetica della scissione dell’io dal mondo, disgrega la realtà oggettiva lasciando emergere la soggettività: come già sapevano Tasso, Shakespeare, Cervantes, Marino, Milton, la cultura barocca, da cui è influenzata l’art nouveau in ogni suo aspetto, dalla letteratura all’arte, alle arti applicate. Il filosofo Walter Benjamin riconosce nell’uso dell’allegoria e nei linguaggi della modernità gli stessi modelli espressivi dell’arte barocca: secondo lo studioso tedesco, nelle epoche di crisi, quando i paradigmi conoscitivi diventano probabilistici, l’arte non ricorre più al simbolo, segno di unità del’io con il mondo, ma esprime il suo disorientamento nella figurazione allegorica concettuale e nella rinuncia a un senso univoco e oggettivo. (1)
Tra simbolo e allegoria oscilla la lunga stagione del liberty o art nouveau, durante la cosiddetta Belle Epoque, attraversata da sotterranee tensioni che esploderanno nelle avanguardie di inizio secolo arrivando alle soglie della prima guerra mondiale. Il nuovo stile appare come una sorta di radicalizzazione estrema dei vari ‘ismi’ tardo ottocenteschi, un modo di competere con la modernità avanzante della civiltà della tecnica e delle macchine in una sorta di lunga sfida che tenta di estetizzarne ed esorcizzarne la bruttezza e la corruzione. Walter Benjamin definisce in questo modo il liberty: “è l’ultimo tentativo di sortita dell’arte assediata dalla tecnica nella sua torre d’avorio: un tentativo che mobilita tutte le riserve dell’interiorità. Essa trova la sua espressione nel linguaggio lineare medianico, nel fiore come simbolo della natura nuda e vegetativa, che si oppone all’ambiente tecnicamente armato”. (2)
Il libero gioco combinatorio dei segni che caratterizza il liberty appare come una rivoluzione ‘moderna’, tanto da essere chiamato anche ‘modernismo’: cadono le barriere tra i linguaggi, siano essi figurativi, musicali o letterari, si azzera ogni corrispondenza tra i segni e il senso, si affermano con forza la gratuità e l’autonomia dell’arte. Attraverso la linea serpentina del liberty, la astratta e insistita decorazione che trasforma ogni tratto della realtà in una fitta foresta floreale, in una un’incessante metamorfosi dall’organico all’inorganico, ogni cosa si dissolve nella totale finzione, liberando il segno dalla necessità di rappresentarla. La visione del mondo liberty non ha più nessun fondamento naturalistico e, nonostante sembri ridurre ogni aspetto del reale al mondo vegetale, il motivo dell’arabesco, l’assenza della profondità spaziale e temporale non rappresentano più una realtà sensibile e oggettiva ma evocano il bello ideale attraverso la potente spinta soggettiva dell’immaginazione in una sorta di revival del primo romanticismo.

Fermenti estetizzanti nella letteratura della nuova Italia unita
Negli anni settanta e ottanta Milano e Roma sono tra i centri urbani più significativi del processo di modernizzazione. A Milano vive la tradizione degli studi scientifici e filosofici, si avvertono gli ultimi echi della “scapigliatura”, fioriscono le case editrici (Sonzogno, Vallardi, Treves) e le riviste di avanguardia; sempre a Milano i catanesi Luigi Capuana e Giovanni Verga elaborano il manifesto del verismo, sollecitati dalle discussioni letterarie intorno al naturalismo francese. Lo stesso Giovanni Verga, però, pur essendo il teorico del nuovo procedimento narrativo, non crede del tutto al canone dell’impersonalità, né pensa, come Zola, di identificarsi con il compito e il ruolo dello scienziato terapeuta. Nelle novelle di Vita dei campi e nei due romanzi del ciclo dei Vinti, I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889), non solo la visione del mondo è del tutto negativa, ma la voce del narratore si insinua all’interno del racconto destabilizzando il criterio verista dell’oggettività, secondo il quale la realtà può essere rappresentata abolendo del tutto il filtro critico del soggetto.
Nel corso degli anni ottanta romanzi, racconti e novelle narrano le diversità e la presa di coscienza della nuova Italia unita secondo apparenti canoni veristi ma in realtà preannunciando procedimenti e temi decadenti. Riflettendo su alcuni titoli e date, si nota subito che la tendenza realistica e quella estetizzante coesistono, come accade già in Francia e in Inghilterra: Goccie d’inchiostro (1880) di Carlo Emilio Dossi, Malombra (1881) di Antonio Fogazzaro, romanzi già venati di estetismo, escono insieme a I Malavoglia di Giovanni Verga, manifesto programmatico del verismo; Le avventure di Pinocchio di Collodi (1883), i racconti edificanti di Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, escono a ridosso di due romanzi antitetici e speculari come Mastro don Gesualdo (1889) di Verga e Il Piacere (1889) di Gabriele D’Annunzio, bibbia del decadentismo italiano e del nuovo gusto liberty. In questo orizzonte di opposte e simultanee tendenze Il piacere può essere considerato, anzi, una inconsapevole prosecuzione del ciclo incompiuto dei Vinti. Verga aveva progettato di scrivere cinque romanzi per rappresentare il fallimento delle ambizioni umane, a partire dalla lotta per la sopravvivenza dei Malavoglia, il tentativo di ascesa sociale di Mastro don Gesualdo, l’albagia della Duchessa di Leyra, le ambizioni politiche dell’Onorevole Scipioni, il gusto estenuato per la bellezza dell’Uomo di lusso: ma, dopo aver abbozzato La duchessa di Leyra, Verga passa incosapevolmente la parola del suo ‘uomo di lusso’ all’ ‘esteta’ Andrea Sperelli, novello dandy della letteratura italiana. L’impossibilità di raccontare in modo oggettivo la visione del mondo soggettiva ed estetizzante del suo “uomo di lusso” porta Verga a dubitare del procedimento verista e a rinunciare al suo programma letterario. Già in Senso (1883) di Camillo Boito, seguace di John Ruskin, si percepisce un sentore di decadenza nei tratti della contessa Livia, che preannuncia i personaggi femminili del Piacere; i lombardi “scapigliati” Giuseppe Rovani, Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti si iapirano alla poesia di Baudelaire, ai racconti allucinati di Edgar Allan Poe, al relativistismo di Flaubert piuttosto che al magistero realistico di Balzac o di Manzoni: tutti segni di una frattura critica nell’orizzonte della cultura ottocentesca, in cui l’arte sembra trovare senso solo quando si propone come scienza sociale, utile e produttiva.
Tra gli anni ottanta e il primo decennio del Novecento la ‘scrittura di parole’ sembra dunque prevalere sulla ‘scrittura di cose’, nonostante l’aspro giudizio di Pirandello, che, a cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione dei Malavoglia, in un discorso pronunciato alla Reale Accademia d’Italia in memoria del suo maestro, usa questi termini per celebrare l’essenzialità e l’oggettività di Verga contro il ridondante estetismo dannunziano. Ed è a Roma – teatro delle avventure d’arte e d’amore di Andrea Sperelli – che si consuma del tutto l’esperienza verista, a partire dal 1881, quando arriva da Pescara un oscuro diciottenne, che in pochi anni si fa arbitro di mondanità e di eleganza, orientando il gusto e le tendenze dell’arte e della letteratura verso il simbolismo e l’estetismo. Dieci anni dopo, Il piacere, celebrando il bello, l’arte e la poesia, diventa il manifesto dell’estetismo italiano e romano in particolare, ponendo le basi dell’Art Nouveau e consegnando il nome di D’Annunzio alla belle époque italiana, destinata a chiudersi con l’ingresso del paese nella guerra che lo scrittore vivrà come una straordinaria occasione di rinnovamento estetico.

Romanzieri e giornalisti a Roma tra liberty e decadentismo
Nel 1911 si apre l’Esposizione universale a Torino e a Roma, dove si inaugura anche il Vittoriano nell’antica piazza Venezia, sventrata e radicalmente trasformata. Nel “deserto laziale”, come lo chiamerà D’annunzio nelle Vergini delle rocce (1895), Roma capitale diventa in pochi anni un laboratorio di attività giornalistiche, editoriali, artistiche e letterarie, popolata da scrittori, pittori, musicisti, che si ritrovano nei caffè cittadini, nelle redazioni dei giornali e delle riviste. La città presenta un singolare melting pot sociale e culturale in cui ecclesiastici e aristocratici della vecchia città pontificia convivono con intellettuali e artisti, politici, militari, finanzieri, avventurieri, oltre che con la massa della piccola borghesia inurbata di impiegati e commercianti. Roma diventa la capitale dell’edilizia, degli affari, della politica, si trasforma in un cantiere totale in cui si distrugge e si ricostruisce non solo dal punto di vista urbanistico ma anche dal punto di vista artistico e letterario: linguaggi e tendenze si attraversano caoticamente nelle redazioni e sulle pagine delle riviste e dei giornali che proliferano in gran numero. Così il giovane D’Annunzio, sotto lo pseudonimo di Duca minimo, commenta l’operosità della capitale, in un articolo su “La Tribuna” del 12 maggio 1885: “Roma diventa la città delle demolizioni. La gran polvere delle rovine si leva da tutti i punti dell’Urbe e si va disperdendo a questi dolci soli maggesi. (….)”; è una Roma “costruita dalli architetti giovani, che lasceranno da parte le eleganze del Bramante e si ispireranno utilmente al palazzo del Ministero delle Finanze”. Carlo Dossi, eccentrico intellettuale lombardo, segretario particolare di Francesco Crispi, collaboratore della «Cronaca bizantina», lascia un’esilarante testimonianza del fervore cantieristico della capitale nei Mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele II (1884), una rassegna dei demenziali progetti per l’altare della patria. Nella città distrutta e rinnovata, il vecchio coesiste col nuovo, i prodotti di consumo con quelli di qualità, procedimenti e linguaggi espressivi si rimescolano nel segno della modernità: per usare la metafora di Mattia Pascal nell’omonimo romanzo di Pirandello, quella che era un’ “acquasantiera” per i principi e i papi del passato, per i nuovi venuti diventa un “portacenere”.
Dagli anni ottanta alla metà degli anni novanta le redazioni dei giornali e delle riviste letterarie sono veri cenacoli culturali: la sede del quotidiano «Capitan Fracassa»(1880-90), in via del Corso, la celebre terza saletta del caffé Aragno, o il Caffè Greco, sono punti d’incontro per artisti e scrittori. D’Annunzio non frequenta professori e aule universitarie ma giornalisti, artisti, intellettuali, aristocratici; sposa la nobile Maria Hardouin di Gallese da cui ha tre figli; scrive su tutti i quotidiani e le riviste della capitale. Nel 1882, nella redazione del «Capitan Fracassa», incontra Edoardo Scarfoglio, un altro giovane abruzzese, che lo descrive così: “Gabriele, fanno ora due anni, giunse a Roma dall’Abruzzo con la bella e fresca ricchezza dei suoi vent’anni, e con molta opulenza di poesia e di prosa poetica. E subito mi venne a vedere. Ero, me ne rammento benissimo, sdraiato sopra una panca degli uffici del Capitan Fracassa, e sbadigliavo tra le ciancie di molta gente; e alla prima vista di quel piccolino con la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili, che mi nominò e nominò sé con un’inflessione di voce anch’essa muliebre, mi scossi e balzai su stranamente colpito. E l’effetto fu, in tutti quelli che lo videro, eguale. (…) Gabriele ci parve subito un’incarnazione dell’ideale romantico del poeta: adolescente, gentile bello, nulla gli mancava per rappresentarci alla fantasia il fanciullo sublime salutato da Chateaubriand in Victor Hugo.” (3) Edoardo Scarfoglio si dedicherebbe alla letteratura, come l’amico D’annunzio, se non fosse intrappolato in “un lavoro forzato e ingrato di scribacchino”, che nella seconda edizione del Libro di Don Chisciotte definisce il “tormento della mia vita e il fastidio di tanta gente”. Oltre al Libro di don Chisciotte (1885), raccolta di articoli di critica letteraria, in cui lo scrittore parla di un’arte aristocratica, di un nuovo rinascimento letterario, Scarfoglio pubblica una raccolta di poesie, Papaveri (1880), un volume di racconti, Il processo di Frine (1884), in cui è già ben lontano dal modello verghiano. Chi scrive molto è la moglie, Matilde Serao, con cui condivide il lavoro giornalistico a Roma e a Napoli, dove fondano il «Corriere di Napoli» e «Il Mattino» (1891): decine e decine di libri sovraccarichi di esuberanza espressiva. In La conquista di Roma (1885) e Vita e avventure di Riccardo Joanna (1887) la scrittrice napoletana descrive la corruzione politica, la speculazione, i drammi sociali: il primo è un romanzo parlamentare, mentre il secondo racconta il mondo giornalistico attraverso l’ascesa e la caduta di personaggi giunti in città in cerca di fortuna. Giulio Salvadori, un toscano trapiantato a Roma, collaboratore della rivista «Cronaca bizantina», recensendo La conquista di Roma sul «Fanfulla della Domenica» del 12 luglio 1885, dice: “Noi domandiamo Roma; e l’arte, come la vita ci dà Bisanzio (…) Roma è stata, e sarà sempre la città della forza, della politica e degli affari. Anche nell’ultima incarnazione non l’hanno potuta prendere che le armi, e non la conquisteranno che i milioni”.
Roma, nei primi anni ottanta, è la capitale di un giornalismo essenzialmente letterario, terreno di incontro fra scrittori della vecchia e della nuova generazione, come Pascoli e Carducci, Verga e Capuana, D’Annunzio e Pirandello. Il «Fanfulla della Domenica», nato nel 1879 come supplemento del «Fanfulla» con l’intento di divulgare la letteratura straniera, di sprovincializzare il gusto, è il primo giornale letterario dell’Italia unita, su cui scrivono sia il giovanissimo D’Annunzio che i più anziani Carducci e Capuana. Gli stessi collaboratori del «Fanfulla» scrivono anche sulla rivista «Domenica letteraria» (1882-85), mentre il «Capitan Fracassa», come organo della Sinistra, ospita gli scritti più moderni e polemici di Scarfoglio, della Serao, dello stesso D’Annunzio. Le riviste, comunque, sono talmente tante che a Carducci, poeta ‘professore’ della vecchia guardia, scapperà di dire in un lettera a Sommaruga del 1883: “Impiccatevi tutti, impresari d’una letteratura che non c’è”.
Nel 1878 si trasferisce a Roma anche una rivista fiorentina di antica tradizione come «La Nuova antologia» (fondata a Firenze nel 1866), che tra il 1888 e il 1909 pubblica a puntate i Saggi critici di Francesco De Sanctis, alcuni romanzi di Matilde Serao, Il mistero del poeta (1888) e Piccolo mondo moderno (1900-01) di Antonio Fogazzaro, Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga (l’anno dopo, nel 1889, uscirà in volume da Treves); Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (1904); Dal tuo al mio di Giovanni Verga (1905). Giornali, supplementi letterari, riviste attirano nella capitale molti giovani scrittori dal nord, dal centro e dal sud: dal Piemonte Giovanni Faldella, per esempio, dall’Abruzzo D’Annunzio, dalla Sicilia Pirandello, che maturano procedimenti stilistici e narrativi diversi sperimentando la scrittura giornalistica e contaminandola con quella letteraria. Nel cantiere romano, accanto agli astuti faccendieri, ai politici e agli artisti, soprattutto gli scrittori affollano il panorama letterario cittadino cercando visibilità come giornalisti. Sembra del tutto superata, in un clima culturale di tal fatta, l’età dei poeti-professori, come Carducci e Pascoli, impegnati nell’attività didattica, nello studio e nella ricerca, appagati dall’attività poetica: D’Annunzio, distaccandosi ostentatamente da questo clichè, afferma che “bisogna rinnovarsi o morire”.

Roma ‘bizantina’
Roma, per la sua vivacità culturale, appare come una nuova Bisanzio allo sguardo perplesso e ammirato di artisti e letterati. Negli anni ottanta e novanta risulta presente una nutrita colonia abruzzese, composta da Francesco Paolo Michetti, Costantino Barbella, Francesco Paolo Tosti, Edoardo Scarfoglio. L’attività artistica di Michetti si realizza proprio in questo operoso decennio, tra Il voto, esposto a Roma nel 1883, e La figlia di Jorio, esposto alla prima biennale di Venezia del 1895, in una parabola che si apre e si chiude negli anni dell’esplosione di Roma capitale.
D’Annunzio, amico di Michetti, si ambienta perfettamente nel clima “bizantino” della città, maturando una scrittura contaminata con la musica e l’arte, secondo i principi del simbolismo e dell’estetismo; così lo descrive Ugo Ojetti: “poeta tutto sensi che a vent’anni era già innamorato di tutte le arti figurative e già riempieva dei loro ricordi i suoi scritti”. Le liriche di Canto novo (1882), pubblicate dall’editore Angelo Sommaruga come Intermezzo di rime (1883) e le novelle di Terra vergine (1884), sono illustrate dai disegni dell’amico pittore e a Ojetti sembrano un “acceso riflesso di un quadro michettiano”. (4)
Sommaruga è l’ideatore e l’editore della rivista «Cronaca bizantina» (1881-1885), stampata in quattro fogli ornati in stile liberty, che ospitano gli scritti di Dossi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio e di molti altri scrittori e giornalisti. L’imprenditore pubblica saggistica e narrativa, cronache mondane e pubblicità, esaltando la qualità degli scritti e l’eleganza tipografica, immaginando di fare della rivista il motore del dibattito sulle arti e la letteratura.
Il triestino Scipio Slataper, recensendo nel 1911 una riedizione del Libro di don Chisciotte di Scarfoglio sulla rivista fiorentina «La Voce», riassume così l’attività di Sommaruga: “L’Italia era povera e paurosa; era provinciale; ed egli vi piantò come un Louvre parigino, luccicante di mai visti carboni elettrici. L’Italia si era unita in Roma, ma Milano non conosceva Napoli, Genova, non l’Abruzzo. La letteratura viveva nelle tenebre regionali. Egli l’unificò in Roma: Dossi sciolse il suo meneghino, Verga drammatizzò la sua Cavalleria rusticana, la Serao si preparò alla Conquista di Roma, D’Annunzio si lavò il viso incrostato di sale nell’acqua bionda-lustrale del Tevere. E con questa sanissima coscienza editoriale riuscì a fare la Bizantina, la rivista più curiosa del mondo.” (5)
Dopo il fallimento di Sommaruga, costretto a fuggire all’estero per i debiti accumulati, «Cronaca Bizantina» viene diretta dallo stesso D’Annunzio dal novembre del 1885 fino al marzo del 1886, quando cessa di uscire. Si accentua in questa fase il gusto estetizzante della rivista che si allinea in modo marcato alle idee di Ruskin, curando ancor più la veste grafica, il colore, le illustrazioni. In questi anni ‘bizantini’ D’Annunzio sperimenta la collaborazione tra arte e poesia nel prezioso libro illustrato Isaotta Guttadauro (1886), raccolta di poesie di gusto parnassiano e di memoria preraffaellita, ispirate alla letteratura del Duecento e del Trecento. La pubblicazione è promossa dallo scrittore e critico d’arte Angelo Conti e dalla sua cerchia, con cui D’Annunzio entra in contatto attraverso l’amico Giuseppe Cellini: l’edizione del libro è corredata da illustrazioni originali di Alfredo Ricci, Giuseppe Cellini, Aristide Sartorio, Vincenzo Cabianca, Mario De Maria, Enrico Coleman, Onorato Carlandi.

La favola bella del Piacere
Se a Ugo Ojetti l’arte di Michetti appare come una sorta di magia, ad altri sembra esuberante, eccessiva, decorativa, gratuita; le sue scene di genere sono lette come bozzettismo paesano, le composizioni di più ampio respiro, come Il voto, appaiono ad alcuni critici disorganiche e declamatorie: in realtà sono i tratti innovativi della sua pittura, decisamente lontana dal linguaggio naturalistico in cui pure affondava le sue radici.
Nei primi racconti di Terra vergine del giovane D’Annunzio si ritrovano gli stessi procedimenti compositivi e stilistici michettiani, che denunciano il passaggio dal naturalismo al simbolismo e all’estetismo: descrizione, amplificazione, simbolismo e allegorismo, che nel Piacere si dilateranno diventando i fondamenti estetici del romanzo. Sono modi espressivi del tutto nuovi, che indicano la trasformazione radicale dello stile e del linguaggio, la dissoluzione dei canoni narrativi tradizionali fondati sulla coerenza dei personaggi, la compiutezza e la linearità dell’intreccio. Come la pittura di Michetti, nella parabola che va dal Voto alla Figlia di Jorio, vira verso il simbolismo, così la scrittura dannunziana rinuncia all’oggettività verista per ridefinirsi in termini estetizzanti. Al termine dei cosiddetti anni ‘bizantini’, la “favola bella” del Piacere racconta il momento culminante di questa tendenza dando forma ed espressione al nuovo gusto liberty romano.
Nella lettera a Francesco Paolo Michetti, che introduce al romanzo, lo scrittore rivolge all’amico “un saluto di rime sospiranti: All’Ideale che non ha tramonti, / alla Bellezza che non sa dolori!.” Roma è il tema centrale del Piacere e a Roma, come Ruskin a Venezia, D’Annunzio viene preso dalla passione “profonda e rovinosa” per l’arte e la bellezza. Lo scrittore osserva e vive la città intensamente, armato di taccuino di appunti per annotare ogni dettaglio dei monumenti d’arte, della vita sociale, delle bellezze naturali, riutilizzando tutto a piene mani nel romanzo, che ha un enorme successo e diventa ben presto, insieme al suo autore, il riferimento centrale del gusto e delle tendenze di fine secolo. Nel Piacere lo sguardo, educato nella palestra romana del Duca Minimo, di Vere de Vere, di Lila Biscuit, pseudonimi con cui lo scrittore si firma sulle pagine delle cronache mondane, sfida il pennello del pittore fermandosi sugli oggetti d’arte, sulle vesti eleganti, sugli arredi e gli antichi dipinti dei nobili palazzi. Nella lettera a Michetti dichiara ancora: “ (…) a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto grande artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile tra le facoltà dell’intelletto: io debbo l’abitudine dell’osservazione (…)”.
All’inizio del romanzo, Andrea Sperelli, novello Des Esseintes, osserva la città dalla soglia di una finestra che lo separa dal mondo esterno: è attorniato da oggetti raffinati, isolato dalla bruttezza della realtà, nel palazzetto che il pittore Federico Zuccari progettò e costruì per sé alla fine del Cinquecento. La storia del dandy, amante del bello e del piacere, è la stessa di Gabriele D’Annunzio, che fa dell’arte una professione di vita e della vita un progetto estetico. Andrea Sperelli è un clone di Gabriele D’Annunzio, come Dorian Gray è un doppio di Oscar Wilde, che porta alle estreme conseguenze lo stesso progetto di estetizzazione della vita in una drammatica parabola di autodistruzione. L’elegante arabesco, la decorazione floreale, la sospensione del tempo e dello spazio, sono i tratti divaganti con cui D’Annunzio racconta la città d’arte, nelle cui trame stili e linguaggi si rimescolano attraverso descrizioni, metafore, allegorie. I canoni della scuola verista, essenzialità, oggettività e impersonalità, vengono sostituiti da una estenuata ricerca di bellezza: il personaggio vede, osserva, riflette, eccede nell’analisi, non riesce ad agire perdendo consistenza; l’intreccio diventa inessenziale e la storia si dipana in infinite digressioni senza chiudersi in un epilogo. Il Piacere segna una fase importante nella crisi di trasformazione del genere romanzo secondo un gusto marcatamente liberty: palazzi, piazze, fontane, si accampano con tratti sinuosi sullo sfondo della storia, trasformando la città in una “selva immaginaria” popolata da evanescenti apparizioni femminili, che ricordano quelle di Intermezzo di rime pubblicato da Sommaruga nel 1883. In ‘Ricordo di Ripetta’, per esempio, la donna è una Beatrice preraffaellita che si staglia sottile e ondeggiante su sfondi fioriti: “alta e pieghevole/ passaste, sorridente e luminante,/ (…) Lunghi rami di mandorlo la fante/ dietro di voi recava (…)un bellissimo sogno floreale/ dietro di voi lasciaste al riguardante. Su da la strada chiara e solitaria/ rompeano molti al cielo di turchese mandorli in fiore, per incantamento”. In Chimera (1890) i personaggi sono ridotti a sinuosa linearità, il paesaggio urbano si delinea pittoricamente, fiorisce come un immenso giardino, si anima di vita naturale. Nel terzo rondò, alla luce della luna, tra giardini carichi di rose compare un’immagine astratta di donna, “sorella della luna e delle rose”: “ Come sorga la luna/ da le cime selvose/ e grave su le cose/ sia l’oblio della luna, / amica tu verrai/ furtiva ne ‘l verziere”. Sulla piazza Barberini, nel sesto rondò, “s’apre il ciel, zaffiro schietto”; in Romanza si disegnano, come in un cammeo, Trinità dei Monti e la piazza di Spagna: “Tutta a ‘l sol, come un rosaio,/ la gran piazza aulisce in fiore” (…) “l’Obelisco pur fiorito/ pare, quale un roseo stelo;/ in sue vene di granito/ ei giosce, a mezzo il cielo”. Nelle pagine datate 1922 del Libro segreto D’Annunzio ricorda con nostalgia le “primavere melodiose” del decennio romano, quando indulgeva “alla fluida vena e alla rima sonante, alla romanza e al rondò”.

La Galleria Sciarra e il «Convito» di Adolfo De Bosis: il dialogo tra artisti e letterati
La Galleria Sciarra, costruita in ferro e vetro, tra il 1886 e il 1887, dal principe Maffeo Barberini, uno dei protagonisti della febbre edificatoria di Roma capitale, racconta in modo emblematico il sogno d’arte e bellezza della città. A Giuseppe Cellini viene affidata la decorazione, ideata dal letterato Giulio Salvadori come una celebrazione delle virtù femminili.
Sulle pareti della Galleria, in elegante stile liberty, sono dipinte, su fasce contrapposte, immagini di donne: la Pudica, la Sobria, la Forte, l’Umile, la Prudente, la Paziente sono di fronte alla Benigna, alla Signora, all’Amabile, alla Fedele, alla Misericordiosa; in basso, nel registro inferiore, sono dipinte le scene della Cura del giardinaggio, della Conversazione, del Pranzo domestico, del Trattenimento musicale, dell’Esortazione alla carità; mentre sul lato opposto troviamo la Conversazione galante (in cui compare lo stesso D’Annunzio), la Toeletta, il Matrimonio, la Cura dei figli commentata da versi di Virgilio.
Le lettere CCS, Carolina Colonna Sciarra, madre del principe e sintesi di ogni virtù, si leggono in uno scudo, mentre la sigla MS, Maffeo Sciarra, compare nello stemma sulla soglia d’ingresso. Il principe mecenate ospita nel palazzo la redazione e la tipografia della «Tribuna» e della «Cronaca bizantina» negli anni in cui è diretta da D’Annunzio. La parabola dell’aristocratico e illuminato collezionista, protettore delle arti, si consuma in breve tempo, come quella di Sommaruga: non riuscendo a sostenere le spese della sua ambiziosa impresa culturale e della sua spericolata speculazione immobiliare, il principe è costretto a disperdere la collezione d’arte cedendo l’intero edificio alle banche creditrici.
La realizzazione della Galleria Sciarra, a prescindere dalla sorte del principe, è un esempio del fervido clima culturale romano in cui la collaborazione tra artisti e letterati è pratica diffusa. Lo scrittore Diego Angeli, nelle Cronache del caffè Greco (1930), descrive la vita mondana e culturale della città di quegli anni raccontando gli incontri degli artisti nello storico caffè. Il gruppo fa capo al letterato e critico d’arte Angelo Conti, il quale, in linea con le poetiche decadenti e simboliste, pensa che l’arte sia intuizione mistica, capace di rivelare l’essenza ultima della realtà. Del cenacolo artistico e letterario del caffè Greco fanno parte pittori e scrittori, come lo stesso D’Annunzio e soprattutto Adolfo De Bosis, colto e benestante intellettuale, ideatore di una ricercata ed elegante rivista, da lui chiamata «Il Convito» (1895-1907), di cui Diego Angeli è caporedattore. Ed è proprio la storia della raffinata rivista a chiudere emblematicamente il decennio romano ‘bizantino’ esasperandone le tendenze alessandrine e decadenti nella ricerca del bello assoluto.
Nel «Convito», finanziato, diretto e in gran parte anche scritto dallo stesso De Bosis, si ritrova la stessa passione estetica e letteraria della «Cronaca bizantina». Tra i collaboratori della rivista compaiono i nomi di Diego Angeli, Giosuè Carducci, Enrico Nencioni, Edoardo Scarfoglio, Adolfo Venturi, oltre che di D’Annunzio e di Pascoli. I fascicoli sono stampati su carta appositamente fabbricata e con le illustrazioni di Giuseppe Cellini, Giulio Aristide Sartorio, Francesco Paolo Michetti, Alessandro Morani, Lawrence Alma-Tadema, Enrico Coleman, i quali teorizzano che l’illustrazione è la continuazione e l’interpretazione della parola, così come la critica è arte generata dall’arte e il critico “artifex additus artifici”. Ugo Ojetti descrive così l’appartamento affrescato di Palazzo Borghese in cui ha sede la rivista: “Odor d’incenso o di sandalo, luce mitigata da tende o da cortine, sete e velluti alle pareti, cassepanche e tavole del rinascimento, divani profondi senza spalliere con venti cuscini, e in vecchie maioliche fiori dal lungo stelo, fasci di rami fioriti” (6)
Nel proemio che apre, nel 1895, il primo numero della rivista, certamente scritto da D’Annunzio anche se non firmato, riecheggiano le parole introduttive del Piacere nel richiamo alla ricerca di un linguaggio comune a tutte le arti e soprattutto al culto della Bellezza come supremo ideale contro la barbarie: “Alcuni artisti, scrittori e pittori, accomunati da uno stesso culto sincero e fervente per tutte le nobili forme dell’Arte, si propongono di pubblicare ogni mese in Roma – dal gennaio al dicembre di quest’anno- una loro raccolta di prose, di poesie e di disegni composta con insolita severità di scelta e stampata con quella eleganza semplice che aggiunge decoro alle belle immagini e ai chiari pensieri. (….) noi vogliamo sperare che questo nostro ‘convito’ possa raccogliere un vivo fascio di energie militanti le quali valgano a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità che ricopre ormai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili.” Lo stesso D’Annunzio pubblica sul «Convito» Le Vergini delle rocce e Giovanni Pascoli il poemetto Gog e Magog. “Non omnes arbusta iuvant”, “Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”, dichiara Pascoli nell’epigrafe della raccolta dei Poemi conviviali (1904), pubblicati in gran parte sulla rivista di De Bosis dietro sollecitazione di D’Annunzio, chiamato da lui nella Prefazione, “fratello minore e maggiore”, “giovinetto, pieno di grazia e di gloria”, che lo trae “dall’ombra e dal deserto e dal silenzio”, per resistere alla “torbida onda di volgarità” nella fervente officina della Roma ‘bizantina’. Il richiamo è alla IV Bucolica di Virgilio che Pascoli aveva già citato, omettendo il “non”, per introdurre le poesie dei Canti di Castelvecchio (1903) di argomento umile e quotidiano.
I poemi ‘conviviali’ arretrano nello spazio senza tempo del mito, in una dimensione di sospensione della realtà, come in un fondo oro neoprimitivo, secondo il nuovo gusto liberty. Eleganza formale e dotte citazioni lasciano filtrare comunque un profondo smarrimento: Solon, Tiberio, Odisseo, Alexandros, sono maschere inquiete di un dolore che l’arte più squisita non riesce a colmare. Il personaggio del condottiero macedone esprime il disagio dell’uomo moderno sopraffatto dal mistero impenetrabile della realtà: “E così piange, poi che giunse anelo:/ piange dall’occhio nero come morte;/ piange dall’occhio azzurro come cielo./ Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)/ nell’occhio nero lo sperar, più vano/ nell’occhio azzurro il desiar più forte”. Pascoli dedica ad Adolfo De Bosis i poemetti con le parole dei versi iniziali di Solon: “Triste il convito senza canto, come/tempio senza votivo oro di doni;/ che questo è bello: attendere al cantore/ che nella voce ha l’eco dell’Ignoto”: ed effettivamente De Bosis ama rappresentare i rituali del convito con gli scrittori e gli artisti suoi amici e collaboratori, invitandoli ad alzare la coppa ricolma per auspicare l’avvento di un’era segnata dalla rinascita della bellezza. Ancora il mito di Des Esseintes, dunque, e il suo sogno di fuga dalla volgare bruttezza del mondo esterno: “di fuori giungeva un mormorio basso di plebi avventate con le loro piccole brame verso ogni gioia più misera o adagiate nel loro tedio, giungevano voci di piccoli uomini dall’Urbe contaminata di bruttezza materiale e morale, giungevano echi di poesia mediocre, ultimi languori romantici, fatui trionfi di poetastri dell’immondizia”. (7)
Il «Convito», dopo i primi nove numeri, continua a uscire fino al 1907, scritta solamente da De Bosis, il quale, del resto, diversamente da D’Annunzio che lo chiama “principe del Silenzio”, non intende comunicare e promuovere le sue idee con manifesti e proclami, come sembra necessario nell’età in cui lo stesso ‘vate’ pescarese pone le basi della cultura della comunicazione. Che l’arte e la bellezza, secondo D’Annunzio, debbano essere vissute in modo clamoroso e totalizzante risulta evidente dalle sue stesse scelte esistenziali, inseparabili dalla dimensione estetica. Giornalismo, letteratura, mondanità, politica, guerra: il poeta teatralizza ogni sua attività, fino a progettare la realtà alternativa del Vittoriale, dove si estrania e si isola. Nella residenza del Vittoriale l’artista sostituisce l’uomo, mentre la casa, trasformata in un libro interamente scritto e dipinto, sostituisce il mondo: il Des Esseintes di A rébours viene esplicitamente citato nell’arredamento della sala da pranzo, dove campeggia una tartaruga dorata.
Le case museo in cui vivono Des Esseintes, Andrea Sperelli, Dorian Gray, il ‘vero’ D’Annunzio, non sono altro che totali finzioni, fantasmagorici rifugi in cui l’artista trova scampo a un mondo che vede orribilmente meccanizzato e mercificato: unico caso, però, quello del Vittoriale di D’Annunzio, in cui un mito letterario diventa realtà trasformando la realtà stessa in mito e rappresentazione estetica.

(1) W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), Einaudi, Torino, 1971, p.174 e pp.185-6. Nel suo unico libro compiuto Benjamin analizza il rapporto tra il dramma barocco tedesco e la tragedia greca antica concentrandosi sulle figure del simbolo e dell’allegoria di cui analizza a fondo la funzione conoscitiva. In particolare nel secondo capitolo dell’opera, il filosofo tedesco affronta i fondamenti estetici del procedimento allegorico che sposta l’attenzione sulla carica espressiva e figurativa del segno linguistico liberandolo dal senso, trasformandolo in geroglifico, ideogramma, perché sconfini dal discorso alla pittura.
(2) W. Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1962, p. 153-4. Nel saggio Benjamin, analizzando la società, l’arte, la cultura della Parigi fin de siècle, individua come un tratto saliente della modernità la dialettica tra tradizione e innovazione, tra arte e tecnica, tra soggettività e oggettività: nel liberty coglie il tentativo di plasmare esteticamente i materiali più inerti, come il cemento, il ferro, la ghisa, trasformandoli in segni espressivi dell’interiorità.
(3) Edoardo Scarfoglio, Il libro di Don Chisciotte, Firenze 1911, pag.147
Nel suo libro di memorie Scarfoglio registra le trasformazioni del giovane D’Annunzio da quando arriva a Roma, “affabile” e “ modesto”, sino a quando si trasforma in “un selvaggio rincivilito”, un “cagnolino con un nastrino di seta al collo”, incline alla “lode bugiarda” e all”adulazione” sfacciata delle dame; ma ancora, nella nota introduttiva dell’edizione del 1925, lo scrittore abruzzese, a proposito del suo conterraneo, non può fare a meno di dire: “Giudicatelo come volete, esaltatelo o condannatelo; voi non potrete disconvenire ch’egli riempie della sua personalità esuberante tutto il mondo della poesia, del romanzo, del teatro, tutta, insomma, la leteratura moderna, dall’Italia alla peniscola scandinava, da Parigi al Giappone”.
(4) Ugo Ojetti, Artisti contemporanei: F.P.Michetti, in “Emporium”, dicembre 1910.
Ugo Ojetti, fondatore delle riviste «Dedalo» e «Pegaso», giornalista, scrittore e critico d’arte, fu attento osservatore dell’arte e della cultura del suo tempo di cui lasciò importanti testimonianze in interviste e articoli su quotidiani e riviste; in un celebre libro-reportage della sua prima giovinezza, Alla scoperta dei letterati (1895), intervistò Fogazzaro, Carducci, lo stesso D’Annunzio per cogliere i tratti salienti della letteratura di fine secolo secondo una logica giornalistica allora inconsueta.
(5) S. Slataper, Quando Roma era Bisanzio, «La Voce» anno III, n.16, 1911, in G. Stuparich (a cura di), Scritti letterari e critici, Milano 1956. Slataper, guardando “con ammirazione ed invidia all’epoca bizantina”, coglie con qualche rimpianto il senso di una fase storica caratterizzata da momenti “d’arte, di passione, di libertà, di ricchezza, di spensieratezza”. Sull’esperienza di Roma “bizantina” si veda il classico A. Squarciapino, Roma bizantina, Torino, Enaudi 1950
(6) Ugo Ojetti, Cose viste, I,Firenze 1951, p. 53. Nella mole di articoli scritti sul «Corriere della Sera» dal ’21 al ‘43, tra terza pagina e prosa d’arte, Ojetti tratta svariati temi che vanno dalla musica, all’arte, alla letteratura, dando informazioni e testimonianze preziose sull’arte e la letteratura dell’epoca.
(7) Luigi Valli, Adolfo De Bosis, in “Nuova Antologia”, n. 328, 1 dic. 1926, p 290-99.
Claudio Varese, nel saggio Adolfo De Bosis (in «Rassegna della letteratura italiana», a.69, gennaio aprile 1965), indaga ad ampio raggio sull’attività di traduttore e di poeta del singolare personaggio, che con la sua rivista consacra l’estetismo e il culto del bello. Sui percorsi della letteratura liberty si è concentrata l’attenzione di un grande studioso della poesia italiana del Novecento come Edoardo Sanguineti, in particolare nel saggio intitolato Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia 1961.

Add Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Pin It on Pinterest