Copenhagen, o dei fondamenti di una conoscenza critica fondata sulla complementarità e il dialogo. Bravissimi Umberto Orsini e Massimo Popolizio, in primo piano, e Giuliana Lojodice, sullo sfondo, in Copenhagen di Michael Frayn (1933), al teatro Argentina il 4 dicembre. Rappresentata per la prima volta a Londra nel 1998, l’opera teatrale mette in scena il misterioso colloquio che avvenne a Copenhagen, nel settembre del 1941, durante l’occupazione nazista della Danimarca, tra due grandi protagonisti della nuova fisica novecentesca, il danese Niels Bohr (1885-1962) e il tedesco Werner Heisenberg (1901-76), alla presenza della moglie di Bohr, Margrethe. Frayn immagina che i due, dopo anni di lontananza, si ritrovino a discutere, non più da colleghi e amici, non solo sullo stato della loro comune ricerca, ma sull’utilizzo dell’energia nucleare a fini bellici. Nessuno ovviamente sa cosa si siano detti realmente i due scienziati, ormai inevitabilmente schierati sui fronti contrapposti di un paese occupato e di un paese occupante. Né sappiamo come avrebbero potuto risolvere il problema dei rapporti tra etica e scienza, neutralità e impegno, proprio i due massimi scopritori del fondamento critico e dialogico di ogni conoscenza. Il principio di complementarità di Bohr e il principio di indeterminazione di Heisenberg rivoluzionarono la fisica del mondo atomico e subatomico destabilizzando i fondamenti deterministici della conoscenza novecenteschi. Quel che sappiamo per certo, a partire dalla loro ricerca ‘complementare’, è che intendere e comprendere la natura problematica del mondo in cui noi tutti viviamo significa, ineluttabilmente, interagire, costruire un dialogo perenne tra soggetto e oggetto, che si rinviano l’uno all’altro, in un continuo scambio, compenetrandosi tra loro in una unità doppia, contraddittoria, necessaria e mutevole. Secondo il principio del Tao, assunto, non a caso, da Bohr come simbolo della sua ricerca. E anche secondo Eraclito e la grande filosofia presocratica.
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