Carlo Pavolini. La riforma Franceschini, le soprintendenze e i musei

Questo intervento critico di Carlo Pavolini mi sembra fondamentale per comprendere il significato profondo di una riforma che non solo non produce lavoro in nessun campo della cultura, ma emargina e mortifica la professionalità degli storici dell’arte.

La riforma Franceschini, le soprintendenze e i musei
08-01-2015
Carlo Pavolini
LA RIFORMA FRANCESCHINI, LE SOPRINTENDENZE E I MUSEI
Il 10 dicembre 2014 è entrato in vigore il nuovo regolamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, noto come “riforma Franceschini”. Uno dei nuclei fondanti del provvedimento è la riorganizzazione delle cellule-base del Ministero, le Soprintendenze territoriali: ma tutto sommato, la nuova articolazione degli uffici di tutela (art. 33) fra “Soprintendenze Archeologia” e “Soprintendenze Belle Arti e paesaggio”, queste ultime fuse in unico organismo (e la dice lunga già la terminologia, al contempo sciatta e rétro, con l’incongruo recupero della gloriosa ma datatissima espressione “belle arti”), ha suscitato minori discussioni di quel che ci si poteva attendere. O meglio: l’aspetto interessante – in negativo – è stato il concentrarsi dei commenti sul fatto che, mentre le ex Soprintendenze ai Beni storico-artistici e quelle ai Beni architettonici venivano appunto unificate, quelle ai Beni archeologici rimanevano escluse da tale accorpamento. E qui – nelle settimane e nei mesi che hanno preparato il varo della riforma, e subito dopo la sua pubblicazione – se ne sono sentite, devo dire, di tutti i colori. Nell’”aria che tira”, ed esplicitamente in alcuni articoli di giornale, ma (come subito vedremo) anche in alcune prese di posizione ben più “ufficiali”, è parso come di avvertire un grande sospiro di sollievo bipartisan: emesso, cioè, sia da parte di chi avversava le linee-guida della riforma, sia da parte di chi le favoriva. Si sono letti autorevoli opinionisti affermare che, certo, alcune Soprintendenze sarebbero state aggregate e quindi sarebbero “sparite”, mentre quelle archeologiche, per fortuna, si sarebbero “salvate”. Lo stesso ministro Franceschini – nei giorni in cui il regolamento entrava in vigore – ha affermato, in una pubblica occasione, che in un primo momento si era pensato di accorpare anche le Soprintendenze archeologiche con le altre, ma che, per merito del governo, questo rischio era stato evitato. Il ministro parlava ad una platea di archeologi, ed evidentemente intendeva così “rassicurarli”.
Colpisce, di questa generale e generica atmosfera di “scampato pericolo” (un sentimento condiviso, magari, anche da alcuni dei lettori di queste righe), la disattenzione con la quale non si sono finora colte – né da parte ministeriale, né da parte della pubblicistica corrente – le serissime implicazioni del passo compiuto nel momento in cui si è scelto di unificare per metà le competenze della tutela territoriale. Si sarà quindi già capito che io critico la riforma non perché unifica troppo, ma perché unifica troppo poco.
In realtà, gli scarsi e distratti commenti di cui ho riportano lo spirito, se non la lettera, producono effetti paradossali. Se infatti – anche da parte governativa – si tende a distinguere fra “sommersi” e “salvati” (i primi, sostanzialmente, sono gli storici dell’arte, e ci tornerò sopra; i secondi, gli archeologi), vuol dire che l’accorpamento è un male: ma allora perché lo si è promosso, e perché lo si giudica un passo avanti? Disattenzione e superficialità sconcertanti, lo ripeto; di più, prevalenza di un’impostazione meramente burocratica e “gestionale” di un problema che avrebbe meritato un ben più ampio approfondimento preventivo. Qui misuriamo ancora una volta, e su un terreno che in Italia assume un’importanza non certo trascurabile, i danni politici e culturali del ventennio appena trascorso, la caduta di tensione e di livello di quella che un tempo si chiamava la “battaglia delle idee”: peggio, la perdita di memoria – con l’eccezione, tanto più lodevole, di pochi commentatori – di problemi e dibattiti che in un’epoca non lontanissima avevano appassionato almeno gli addetti ai lavori, e che, pur non avendo ottenuto (è vero) alcun risultato pratico, si erano talvolta qualificati almeno per il loro spessore culturale.
Capisco che il pericolo di fare la parte del laudator temporis acti è in agguato. In realtà, un filo di collegamento con alcune di quelle passate discussioni si è conservato, e su questo stesso sito web si è manifestato, ad esempio, grazie all’interessante e serrato “botta e risposta” che proprio sul tema della “visione olistica” del patrimonio culturale e paesaggistico – e della sua tutela – si è svolto nel marzo scorso fra Pier Giovanni Guzzo da un lato, Giuliano Volpe e Daniele Manacorda dall’altro: tutti e tre miei grandi amici. L’aggettivo “olistico” è di conio abbastanza recente e non mi piace molto, ma devo dire che rende l’idea, né so trovargli un sinonimo altrettanto sintetico. Inutile dire che su questo tema specifico sono d’accordo con Volpe e Manacorda, fino a identificarmi con le loro posizioni, e mi scuso se nei capoversi che seguono non farò altro che ripercorrere – in alcuni punti essenziali – le argomentazioni da loro già validamente sostenute (da Manacorda anche in un capitolo del suo stimolante libro L’Italia agli italiani, uscito alla fine di questo 2014).
Di Soprintendenze uniche, in effetti (e non di “Soprintendenze miste”, secondo il brutto e squalificante aggettivo che pure si usava a tale proposito, alludendo a esperienze amministrative allora in atto in alcune situazioni, come il Molise), si parlava già negli anni 1970-90, ad esempio in quel vivace centro di discussione che era il gruppo di Dialoghi di Archeologia. Fra gli altri era fautore di soluzioni del genere Andrea Carandini, e anch’io intervenni in merito con un articolo su Ostraka del 1996. Impossibile ripercorrere le motivazioni di ordine pratico, ma soprattutto scientificoculturale, della proposta di creare un ufficio unico per tutte le pratiche di tutela destinate a incidere su uno stesso territorio, motivazioni che vengono ora riprese da Manacorda e Volpe con un’accentuazione – che mi convince appieno – della dimensione del paesaggio come quella che meglio si presta ad esprimere il carattere unitario del patrimonio (tanto più in Italia), e l’esigenza, quindi, di una sua unitaria tutela. Da archeologo, è inevitabile che io abbia presente soprattutto le tematiche proprie del mio campo. Non dimentichiamo che negli anni ’70 avevano fatto piena irruzione in Italia la nozione e la prassi dell’archeologia medievale e moderna; che era sempre più all’ordine del giorno – per chiunque facesse archeologia – pensare per “contesti”, diacronici e interdisciplinari, e quindi collegarsi strettamente ai saperi dello storico dell’arte, dell’architetto, ecc.; che le tecniche e le tecnologie aggiornate dello scavo e della documentazione imponevano sempre più di ricorrere a specialisti (chimici, fisici, biologi…..) non diversi da quelli ai quali ricorrevano gli storici dell’arte; e così via. Non credo che sia utile proseguire nell’elencazione, né scendere nei dettagli, poiché si tratta di cose largamente note. Piuttosto, è funzionale al nostro discorso riassumere le principali critiche che all’epoca venivano mosse alle varie ipotesi di Soprintendenza unica. Quelle che Piero Guzzo oggi sintetizza nei suoi interventi su Patrimonio SOS sono inevitabilmente le stesse che egli mi oppose (e di ciò lo ringrazio, perché dimostrò di prendere comunque sul serio la cosa) dopo l’uscita del mio articolo del 1996. Per grandi linee, potremmo definire la prima come “l’obiezione siciliana”. Essa prende le mosse dalla valutazione negativa che, quasi unanimemente, si dà dell’esperienza delle Soprintendenze intersettoriali di quella Regione autonoma. Ma qui, francamente, rispondere è facile e lo si è fatto più volte, tanto che mi basterà prendere in prestito poche parole dalla lettera aperta di Volpe a Guzzo su questo sito (16/3/14): “i danni del ‘modello siciliano’ sono di tutt’altra natura: derivano dalla dipendenza ravvicinata e dall’ingerenza diretta del potere politico”, incarnato dall’Assessore regionale, “e soprattutto da una scellerata legge regionale che ha prodotto… l’eliminazione di ogni competenza specifica” quale prerequisito per la nomina dei dirigenti.
Ora, tutti indistintamente ci guardiamo bene dal proporre oggi Soprintendenze uniche regionali: si dà per scontato che debbano essere a direzione nazionale, e guidate da tecnici dei beni culturali. D’altra parte nemmeno i colleghi siciliani sembrano rimpiangere il vecchio modello degli uffici di tutela settoriali, stando a quel che afferma lo stesso Volpe (e leggo ora di una recente e netta presa di posizione di Settis, che invita a ripensare questa forma di “autonomia” regionale, rivelatasi nefasta, e a “riportare la Sicilia in Italia”). E infine: come mai, negli anni ’90, i critici delle proposte “olistiche” (benché allora non venissero chiamate così) omettevano accuratamente di citare le buone prove che invece – a detta di tutti – stavano offrendo le citate Soprintendenze “miste” già attive allora in Italia, almeno due delle quali a tripla competenza (architettonica, storicoartistica e archeologica)? Anche oggi nessuno si ricorda mai di menzionare queste “buone pratiche” allorché si affronta il problema.
Seconda “storica” obiezione. Si afferma che, nazionali o regionali che siano gli uffici, se “a rappresentare l’organo e a guidarne destini e operatività è un rappresentante di uno dei saperi compresi nell’organo stesso, ciò comporta automaticamente il declassamento di valore di tutti gli altri saperi”(Guzzo). Stavolta l’argomentazione – che si collega ad un altro problema spesso sollevato, quello del ruolo degli architetti, del quale riparlerò fra poco – sarebbe meritevole di una discussione più approfondita: tuttavia lo si è fatto in altre sedi e lo spazio è poco, così che, anche in questo caso, me la caverò facendo mia l’azzeccata similitudine di Giuliano Volpe con la gestione di un ospedale, che può essere benissimo diretto da un nefrologo senza che ciò vada a scapito dell’operatività e della valorizzazione dei cardiologi, degli anatomopatologi e dei ginecologi che vi
lavorano. Fuor di metafora, ci si può legittimamente chiedere come realizzare nella pratica un simile modello in una Soprintendenza, e su questo tornerò più avanti.
Ma intanto: tutto quello che si è detto finora comporta che una tutela davvero “olistica”, o lo è fino in fondo e in tutto e per tutto (lo dice la parola stessa), o non è. In altri termini, se non verrà integrata nei nuovi uffici anche la competenza archeologica non si elimineranno mai i grandi paradossi del modo attuale di fare tutela sul territorio. Esisterà sempre un ente deputato a intervenire sulle fondamenta di uno stabile e un altro competente sui suoi elevati, con finalità, fondi e tempi diversi e sulla base di linee di ricerca separate; un complesso edilizio potrà essere sottoposto per una sua parte a un vincolo “disciplinare” (archeologico, ad esempio), per un’altra parte no; il comune cittadino non avrà mai uno “sportello” unico a cui rivolgersi, ad esempio, per una ristrutturazione immobiliare, ma continuerà a trovarsi di fronte – come oggi – la prospettiva di un iter tortuoso e incomprensibile di pareri contraddittori e di lentezze infinite; e così via.
Né si dica che a questi inconvenienti pongono rimedio gli istituti “di coordinamento intersettoriale” ora previsti dal regolamento Franceschini, quali il Segretariato regionale (art. 32) e la Commissione regionale presieduta dal Segretario medesimo (art. 39). Il secondo organismo, a orecchio, mi ricorda tanto quelle desolanti “conferenze dei Soprintendenti” degli anni ’70-’90, prive di ogni reale potere e convocate ogni tanto per mero dovere burocratico, così che si scioglievano – con generale sollievo dei Soprintendenti stessi – dopo poche frasi di circostanza. Semmai, su questo terreno, si può registrare a bilancio “positivo” solo l’esaurirsi del ruolo nefasto delle Direzioni regionali, unanimemente giudicate come una sovrastruttura che ha comportato soltanto nuovi filtri burocratici e nuove lungaggini. Prima dell’istituzione di tali Direzioni, si era purtroppo facili profeti allorché si diceva: o le Soprintendenze uniche verranno costruite grazie ad una spinta “dal basso” dei tecnici, e sulla base di un preciso orientamento metodologico e culturale, oppure (siccome l’esigenza è reale) ci penserà….. Arrigoni, cioè il potere centrale, in forme distorte e per i propri fini. Così è stato, e il nuovo impianto ora varato non risolve affatto le contraddizioni. Qui cade a fagiolo una riflessione sulla terza obiezione “storicamente” sollevata contro la prospettiva della Soprintendenza unica: quella che potremmo chiamare l’obiezione “degli architetti”. Non nel senso che veniva formulata da architetti, tutt’altro, ma nel senso che veniva formulata prendendo a pretesto gli architetti. Si tratta, in realtà, di un corollario della critica già discussa secondo cui, se l’organismo unitario è guidato dal rappresentante di uno dei saperi, ciò comporta il declassamento…. (eccetera). In particolare, si sosteneva e si sostiene che – qualora l’ufficio di tutela territoriale (l’aggettivo è importante) venisse unificato – a dirigerlo non potrebbe essere chiamato che un architetto, in quanto detentore della sola competenza disciplinare cui la normativa vigente attribuisce il potere di esprimersi su materie quali il patrimonio paesaggistico, l’urbanistica, la pianificazione in rapporto alla conservazione dei beni culturali e ambientali, e così via. Mi scuso delle eventuali imprecisioni sul piano del lessico normativo, appunto: che non credo tocchino però la sostanza.
In primo luogo viene spontaneo rilevare, se realmente le cose stessero così, un altro dei paradossi del regolamento Franceschini. Se infatti l’art. 33 della legge comporta, come sappiamo, due soli gruppi di Soprintendenze, le “Archeologia” e le “Belle Arti e Paesaggio”, e se le “Belle Arti e Paesaggio” possono essere dirette attualmente (vedi sopra) solo da architetti, ciò implica il bel risultato di aver “salvato” – torno ad una terminologia già utilizzata all’inizio – una sola categoria professionale, quella degli archeologi, e di aver abbandonato alla presunta dittatura degli architetti una seconda professionalità, peraltro di gloriose tradizioni, quella cioè degli storici dell’arte (i quali peraltro tacciono su questo punto, o perché sfiniti e rassegnati, o per altre logiche che non conosco e che vorrei qualcuno mi spiegasse).
In altre parole, e fino a prova contraria, si è semplicemente “sottomessa” una disciplina ad un’altra, senza ottenere in compenso nulla di “olistico”. E non si venga a dire che questo rappresenta solo il primo passo di una futura riunificazione generale, per due motivi: primo, perché ci si potrebbe credere se si scorgesse – nell’atteggiamento dei vertici ministeriali – il sia pur minimo segno di una consapevolezza culturale del problema, il che non è; secondo, perché in Italia una riforma che interviene dopo un secolo di sostanziale immobilità richiederà secoli per essere a sua volta… riformata.
Ma a ben vedere, questa dittatura degli architetti è poi realmente inevitabile? Io non lo credo. So di inoltrarmi in una materia molto tecnica (e infatti lo farò solo in termini generalissimi), e qualche aspetto della normativa – siamo sempre lì! – può sfuggirmi. Ma intanto, la normativa non è la legge mosaica, e con un po’ di coraggio politico e amministrativo può sempre venir innovata. E poi, il problema assumerebbe tutt’altro profilo se si imboccasse la strada di uffici a struttura dipartimentale, il cui dirigente – sia chiaro che penso esclusivamente a dirigenti di formazione tecnica – sia tenuto ad acquisire per via interna i pareri delle singole “sezioni” disciplinari (archeologica, storico-artistica, ecc.) sulle pratiche che le coinvolgono. Assolutamente non deprimendo le competenze specialistiche, ma anzi valorizzandole. Unificando gli archivi, i servizi tecnici e (importantissima) la vincolistica. Rendendo certo un po’ più lungo l’iter interno, ma complessivamente più breve l’emissione finale del provvedimento su pratiche di tipo interdisciplinare. In un simile contesto, cosa vieta che la sezione architettonica e paesaggistica di una Soprintendenza venga interpellata, per gli aspetti di competenza, su un piano paesistico regionale (tanto per fare un esempio), e che il parere finale sia espresso da un dirigente archeologo?
Certo, a questo scopo servono Soprintendenze agili, che controllino ambiti territoriali non troppo ampi. E quindi la tendenza in atto, che favorisce invece la creazione di uffici da un lato tradizionalmente divisi per discipline, e dall’altro estesi territorialmente in modo abnorme (il colmo, un vero e proprio monstrum, si avrà se, come sembra, verrà creata una Soprintendenza archeologica coincidente con l’intera Regione Lazio!), va esattamente nella direzione contraria a ciò che sarebbe auspicabile.
Per il momento, manca davvero lo spazio per parlare qui di argomenti “altri” dal regolamento Franceschini. Non che simili argomenti non siano urgenti, tutt’altro. Uno riguarda il profondo cambiamento di mentalità e di cultura amministrativa (senza il quale sarà vana qualsiasi “ingegneria istituzionale”) che il pur valoroso personale scientifico delle Soprintendenze dovrebbe finalmente affrontare – e prima ancora “visualizzare” – per uscire in positivo dall’ingiusta penalizzazione subìta negli ultimi vent’anni, senza peraltro adagiarsi in un heri dicebamus che fatalmente condurrebbe alla riproposizione dei vecchi problemi. Altri argomenti riguardano il grande tema del rapporto fra tutela, valorizzazione ed economia dei beni culturali, per costringere in tre parole aspetti dalle implicazioni colossali. Un altro ancora, la sfera delle collaborazioni esterne e delle libere professioni nei campi del patrimonio culturale. E così via.
Ma la critica dell’odierno regolamento, o meglio di ben delimitate parti di esso (in questo intervento me la sono sentita di dire la mia solo sugli articoli riguardanti gli uffici periferici), rimarrebbe monca senza un accenno alla riorganizzazione dei musei. Accenno che per fortuna potrà essere breve, perché a questo proposito non ho davvero nulla da aggiungere all’impianto “concettuale” tante volte espresso – fra gli altri – da Salvatore Settis, e ripreso il 21 luglio scorso (mentre l’orientamento governativo si andava delineando), in forma di lettera aperta al Direttore Generale pubblicata su Patrimonio SOS, da Piero Guzzo, col quale stavolta sono pienamente d’accordo. Nessuna contorsione dialettica potrà infatti convincermi della giustezza (in primo luogo, della sensatezza) di quella linea ministeriale che – non senza difficoltà – si riesce a evincere dalla lettura integrata degli articoli 30, 34 e 35 del regolamento. Macroscopico e tante volte paventato – ebbene, ora ci si è arrivati! – è innanzitutto l’errore di dotare di “autonomia speciale” istituti quali i Musei Archeologici Nazionali di Napoli, Reggio Calabria e Taranto (mi limito ad esempi tratti dal mio settore disciplinare), notoriamente e storicamente legati in modo inscindibile al territorio su cui insistono e vivificati da un continuo afflusso di nuove acquisizioni di scavo. Fra l’altro, chissà perché questi e solo questi? Ai quali si aggiunge poi, in modo del tutto incongruo, “Paestum” (così definita, tout court, nel’art. 30): e bisognerà capire perché, anche a non voler andare dietro ai gossi giornalistici di queste settimane.
Al di là dei casi singoli, ciò che comunque colpisce e (con un eufemismo) preoccupa è che – “finalmente” – una serie di grandi musei storicamente “territoriali” vengono staccati dalle Soprintendenze di riferimento, alla faccia di tutti i sogni di una strategia “olistica” per i beni culturali. Ci saranno al massimo “modalità di collaborazione” fra le due serie di istituti (musei da un lato, Soprintendenze dall’altro), modalità assicurate (art. 35) dalla Direzione Generale Archeologia per quanto riguarda i musei di livello dirigenziale, da… nessuno per gli altri musei. Un pasticcio da un lato, nuove sovrapposizioni di competenze e nuovi filtri burocratici dall’altro. E si noti che evito appositamente di accennare all’altra polemica “manager sì, manager no” alla testa dei musei, non perché si tratti di una materia marginale (è anzi molto grave e preoccupante), ma perché si colloca su un terreno diverso e per ora ce la possiamo risparmiare.
C’è invece ancora qualcos’altro di cui parlare. Il testo governativo infatti, già trattando della Direzione Generale Musei all’art. 20, e poi ancora riprendendo la questione – a livello periferico – all’art. 34, fa capire che il modello adottato è quello che attribuisce ai musei, o più precisamente ai nuovi “poli museali regionali”, i compiti di “servizio pubblico di fruizione e valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato”. Prima di tutto, che vuol dire “luoghi della cultura”, ut sic? E poi: le Soprintendenze non saranno quindi d’ora in poi autorizzate a “valorizzare”, o lo potranno fare solo tramite i “poli”? E ciò a prescindere dalle serie problematiche che a mio avviso apre lo stesso termine, generico e abusato, di valorizzazione: ma anche questo tema deve obbligatoriamente rimanere per ora fuori dal quadro e potrà semmai – è una minaccia! – venir ripreso in un futuro intervento. Abbia ogni giorno il suo affanno, dice la Bibbia.
In conclusione. Ho ritenuto giusto esprimere le modeste e soggettive opinioni di una persona attualmente un po’ fuori dai giochi, ma che in passato ha fatto parte dell’amministrazione. Mi dispiace, sinceramente, di non riuscire a trovare molto di positivo nell’articolato governativo, ma mi sembra che con esso venga smantellato l’impianto attuale – con la cui difesa cieca e immobile non mi schiero affatto – a favore di un nuovo quadro densissimo di incognite, per usare ancora una volta un eufemismo. Ricordiamoci sempre che non tutto ciò che è nuovo è necessariamente buono (G. B. Shaw).

Carlo Pavolini
31 dicembre 2014

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