Un contributo di Carlo Pavolini a proposito del Colosseo, del Celio e della Metro C

via dell'impero

L’apertura di via dell’Impero negli anni Trenta.

La semplice riflessione su questa antica fotografia  può essere una premessa a qualunque considerazione sugli attuali cantieri della Metro C, soprattutto per quanto riguarda la nuova Stazione che richiederà uno scavo profondo 50 metri, occupando una buona metà di via dei Fori Imperiali a partire dalla Basilica di Massenzio fino ad arrivare a pochi metri dal Colosseo.

Questo interessantissimo contributo di Carlo Pavolini può essere molto utile per capire qual è la complessità del problema da affrontare quando si cerca di conciliare la straordinarietà indiscutibile di un’area archeologica come quella del Celio e del Colosseo con i cantieri giganteschi della cosiddetta tratta T3 della Metro C, con la loro invasività e soprattutto con la loro preoccupante prevedibile biblica durata.

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Carlo Pavolini è un archeologo che ha lavorato all’interno della Soprintendenza Archeologica di Roma e attualmente è docente di Archeologia e Storia dell’arte romana presso l’Università degli Studi della Tuscia. Tra le sue pubblicazioni vi segnalo in particolare quelle che riguardano il rione Celio: Caput Africae: indagini archeologiche a Piazza Celimontana (1984-1988), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1993; Archeologia e topografia della regione II (Celio). Un aggiornamento sessant’anni dopo Colini. (Lexicon topographicum urbis Romae. Supp. 2), Quasar, 2006.

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—    CARLO PAVOLINI  

E’ inevitabile che ad ogni ripresa dei lavori per le metropolitane romane – un iter già di per sé tormentato e che procede a singhiozzo, intervallato da anni di inerzia e di silenzio – si riaprano i dibattiti e le polemiche sui rapporti fra lavori pubblici nel sottosuolo (di una città come questa!), rinvenimenti archeologici, monumenti fuori terra, progettazione urbanistica. Devo dirlo in premessa: sono un archeologo, sono di sinistra e non sono contrario per principio alla Metro C. Dopo decenni di (giusta) predicazione contro il traffico privato su gomma e a favore del servizio pubblico su rotaia, trovo incongrue le levate di scudi pregiudiziali – non appena si accenna a toccare il cortile di casa – contro ogni opera che vada nella direzione voluta: e non parlo solo per Roma, ma su scala nazionale.

Detto questo, altro sarebbe accettare acriticamente e passivamente ogni intervento, abbassare la guardia sulle modalità di attuazione, rinunciare a premere per cambiarle, se non vanno bene. E quanto a modalità di attuazione, è bene riservare in primo luogo un accenno all’esigenza che siano condotte tutte le necessarie indagini archeologiche preliminari, come peraltro viene già fatto. Per citare un solo esempio, penso (perché è la situazione che conosco più da vicino) al pozzo di collegamento della Metro C di Piazza Celimontana, attuale Parco della Pace. E’ un’area che ha rivelato in passato notevoli rinvenimenti archeologici, in settori diversi da quello dove è previsto il pozzo. Qui sono stati già eseguiti dei sondaggi e non c’è da dubitare che la Soprintendenza documenterà accuratamente tutto ciò che del sottosuolo debba essere eventualmente sacrificato, secondo quei principi dell’archeologia preventiva che non contrappongono meccanicamente conservazione a trasformazione, ma puntano in primo luogo alla conoscenza scientifica e sistematica delle tracce del passato.

Ma torniamo alla questione principale, e alla scala urbana. Pessimo biglietto da visita per la ripresa dei lavori della Metro C sono le voci – largamente diffuse già prima di cominciare! – di collusioni con la criminalità organizzata, di giri di tangenti, di subappalti fuori controllo. Secondo i media – da “Report” alla stampa quotidiana – gli inquirenti sono già al lavoro, e a queste ipotesi di reato sul piano penale (tutte da verificare, per carità!) si aggiungono quelle sul piano amministrativo: abnormi lievitazioni dei costi e di conseguenza dei tempi, dei disagi per i cittadini, ecc. Di più: si teme per la stabilità del Colosseo, perché le modifiche di progetto porterebbero a scavare molto più vicino alle fondamenta dell’Anfiteatro di quanto non fosse previsto: l’allarme è stato lanciato da Italia Nostra, e anche su questo versante la Corte dei Conti sta valutando l’eventualità del danno erariale.

Per fortuna se ne parla, per fortuna ci sono battagliere associazioni che portano ogni giorno tutto questo sotto gli occhi della cittadinanza e che incalzano senza sosta sia l’ente responsabile dei lavori, cioè il Comune di Roma, sia gli enti di controllo, cioè la magistratura e la Soprintendenza Archeologica: ma bisogna dire che quest’ultima – ad esempio tramite la direttrice del Colosseo, Rossella Rea – ha preso da subito posizioni molto chiare, ricordando le prescrizioni (disattese) di chiusura al traffico di Via dei Fori in caso di avvio dei cantieri e ventilando un danno erariale (ancora!) se si dovesse verificare un sensibile calo del numero dei visitatori dell’Anfiteatro.

Ma c’è un altro aspetto, di cui invece quasi nessuno parla, ed è per questo che mi decido a scrivere questo intervento (altrimenti del tutto superfluo). Va bene, battiamoci per chiudere al traffico privato Via dei Fori, lavoriamo anche a farvi passare prima o poi – anche questo si è detto, e sono entusiasticamente d’accordo – il tram al posto dei mezzi pubblici su gomma: ma poi, qualcuno vuole magari dare uno sguardo anche ai due lati dello stradone? Vogliamo ricominciare a parlare degli enormi spazi incomprensibili e slabbrati, vuoti, oppure colmi di confuse sovrapposizioni di strutture di epoche diverse, che da anni sono lì, abbandonati da tutti (tanto che rischiamo di farci l’abitudine e di finire per gettarci solo qualche occhiata distratta)?

Ciò che fa più male è che si è arrivati a un simile risultato partendo da tutt’altre premesse. Se qualcuno ancora se ne ricorda, quei due vuoti non sono solo il risultato di uno dei tanti sventramenti di epoca umbertina o fascista che hanno compromesso il tessuto urbano del centro di Roma. Certo, Mussolini aveva cominciato, radendo al suolo un quartiere rinascimentale e sterrando quasi senza documentazione le strutture e gli strati interposti fra la quota moderna e quella della “romanità imperiale” che sola gli stava a cuore. Ma negli anni Novanta, e fin quasi ad oggi, gli archeologi del Comune hanno ripreso a scavare ai due lati della strada con ben altri intenti e metodi. Questa impresa – senza dubbio, il cantiere di archeologia urbana maggiore per dimensioni che Roma abbia visto finora – ha rappresentato finalmente una grande opera di indagine stratigrafica, che ha documentato con rigore ogni pagina di storia della città (dal Rinascimento al medioevo e alla tarda antichità) e ha così compensato, per quanto possibile, l’imperdonabile e irrimediabile perdita di dati che si era verificata con gli sterri degli anni Trenta. I risultati sono in parte già pubblicati, e ci stanno facendo capire via via quale enorme spessore di informazione storica sia stato recuperato con lo scavo e con quali tecniche aggiornate sia oggi possibile elaborarlo.

Ma sul terreno, a scavo compiuto, cosa si pensa di fare oggi? Nulla, a quanto sembra, e – quel che è peggio – non se ne parla più nemmeno. Un silenzio di anni, assordante, surreale, delle amministrazioni come delle opposizioni, di tutta (ahimé) la politica romana, ma anche della cultura, anche dell’archeologia: un silenzio che induce ad amare considerazioni sulla profondità dei guasti prima di tutto culturali – appunto – che il periodo appena trascorso (ma è trascorso?) ha evidentemente inoculato nelle vene degli italiani. Per arrossire, basta fare il confronto con l’intensità del dibattito che alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli Ottanta – allorché venne lanciata l’idea di un parco archeologico esteso dall’Appia fino al cuore di Roma – portava tutte le mattine questi temi sulle prime pagine dei giornali. C’erano contrapposizioni accese, ma c’era passione politica e culturale; l’archeologia e il progetto urbano erano al centro delle scelte, giuste o sbagliate; e questo, anche senza stare a ricordare la qualità dei nomi dei protagonisti dei due schieramenti contrapposti, per non rischiare di passare per laudatores temporis acti.

Da ultimo si intravvede, per fortuna, qualche segnale di inversione di tendenza, sul piano politico e su quello progettuale. Mentre scrivo siamo esattamente a metà percorso fra due turni elettorali per il Comune, e forse si sarà capito che io non mi colloco propriamente fra coloro che auspicano una prosecuzione dell’esperienza Alemanno. Ignazio Marino ha inserito fra i punti prioritari del suo programma – se sarà eletto sindaco – una ripresa dell’idea del parco archeologico, e nella sua lista civica figura in buona posizione Rita Paris, funzionaria archeologa della Soprintendenza, che da anni conduce una strenua battaglia per la tutela della zona dell’Appia. Sull’altro versante vi sono già le anticipazioni di un libro che uscirà in autunno a cura dell’architetto Raffaele Panella e che sarà dedicato, appunto, alla sistemazione dell’area fra Piazza Venezia e il Colosseo.

Qui, inutile nascondersi (e non se lo nasconde Raffaele Panella, e sono molto d’accordo con il modo in cui lo affronta) un nodo politico e concettuale: quello del futuro ruolo di Via dei Fori Imperiali. In quella precedente e fervida stagione che ho ricordato, diciamo fra il 1978 e il 1982, la proposta di eliminare con lo scavo lo “stradone” mussoliniano fu caricata di valenze ideologiche eccessive, fattore che forse – fra molti altri – non consentì di aggregare attorno all’idea del Parco dei Fori un consenso tale da renderla attuabile. Gradualmente prevalse allora – né la rimetterei oggi in causa – la linea che la conservazione di Via dei Fori non fosse incompatibile con lo scavo integrale dei settori archeologici circostanti; ciò permise l’avvio dei grandi cantieri di scavo svoltisi poi nei decenni del Novanta e del Duemila, ma come in sordina, si direbbe quasi fra la disattenzione generale: scontando, insomma, quella caduta di tensione che prima lamentavo.

Una vicenda strana, non lineare, che però ha portato anche frutti estremamente positivi (uno fra tutti, il recupero museale dei Mercati Traianei) e che oggi vede in atto tutte le premesse perché si possa ripartire col piede giusto. L’idea – avanzata già in passato, ripresa dal nuovo progetto – di trasformare lo stradone in un viadotto sospeso e pedonalizzato (salvo per alcuni mezzi pubblici e speciali), innestato con le stazioni della metropolitana, corredato da spazi espositivi, consentirebbe di riunificare i complessi monumentali messi in luce ormai per intero dagli scavi: un vero e proprio sistema organico di piazze (i Fori di Cesare, di Augusto, di Nerva e di Traiano e il Templum Pacis di Vespasiano), che peraltro si collega a sua volta, a Sud, con i grandi spazi archeologici noti da sempre. Ricordo l’emozione del momento in cui – spazzato via il ridicolo e anacronistico confine amministrativo fra “proprietà” statali e “proprietà” comunali – si poterono unire, alla quota antica, il Foro Romano con quelli di Cesare e di Nerva. Potenzialmente oggi si può fare ancora di più: creare un’area priva di soluzione di continuità estesa dal Circo Massimo – perché, per la verità, si era detto di pedonalizzare anche Via dei Cerchi – ai Mercati Traianei. In senso Est-Ovest, la continuità fra Colosseo, Foro-Palatino e Campidoglio esiste già, grazie all’opera di Petroselli, Adriano La Regina e tanti altri (e vi è compreso lo scavo della Meta Sudans, cui è riservata una parte specifica nel progetto di Raffaele Panella).

Ma attenzione: quel che oggi si propone è del tutto scevro di trionfalismi, di ubriacature imperiali: non siamo più negli anni Trenta, per fortuna, e oggi l’archeologia è attenta alla diacronia e si interessa di tutte le fasi storiche. Ci vorrà un enorme lavoro di studio e progettuale per scegliere, epoca per epoca, quali “insiemi” organici conservare.

Come si vede, c’è da vigilare sui pericoli della Metro C, da prendere magari anche la Metro C per il verso giusto, come potenziale occasione di riqualificazione urbana, ma c’è anche ben altro, volendo. C’è da lavorare in modo interdisciplinare fra archeologi, architetti e urbanisti, come in parte già si fa; c’è da ricucire la città antica con la città moderna (la questione dei “bordi”, come un tempo si diceva). E bisogna farlo non solo ai fini del rilancio turistico di Roma, non solo ai fini di una ben intesa promozione economica dei beni culturali (anche). Ma, soprattutto, ai fini dell’identità e della coscienza storica.  

 

 

 

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