I dirigenti-obbedienti del Mibact senza diritto di parola

  patrimonio sos
in difesa dei beni culturali e ambientali

 

La satrapia orientale ai Beni culturali. Ministero in crisi ma guai a chi fiata
Simone Verde
Pubblicato: 04/10/2013 06:09
In Italia sopravvive, indisturbato, un ultimo baluardo di feudalesimo. Un settore dell’amministrazione pubblica in cui criticare un dirigente o raccontare l’impotenza di chi non ce la fa può significare il declassamento in totale discrezionalità dei superiori. Questo settore non è legato alla sicurezza nazionale, dove il deficit di democraticità può essere considerato parte della deontologia professionale ma è quello cui più gioverebbe la circolazione delle idee e il dibattito pubblico, sia per reperire risorse private che per alimentare il dovuto consenso sociale attorno alle sue scelte. Questo settore, è quello dei beni e delle attività culturali.Lo ha ribadito una circolare del MiBACT rivelata due giorni fa (la n. 39 del 23 settembre) e firmata dalla segretario generale Antonia Pasqua Recchia in cui “si richiama la necessità che ogni attività a rilevanza esterna finalizzata alla formulazione di proposte normative che possano incidere sulla disciplina dei beni culturali, debba seguire un percorso ordinato e sistematico che sia pienamente rispettoso del ruolo istituzionale assegnato all’organo di indirizzo politico del ministero”. Si stabilisce, così, che “i contenuti della proposte siano preventivamente e obbligatoriamente vagliati dai Direttori generali e dai Direttori regionali competenti”. Chiunque volesse dire la propria sulla riforma del ministero, cioè, non potrebbe affidare le sue idee al pubblico dibattito ma deve passare il vaglio della censura interna.

Il meccanismo oppressivo che sta asfissiando il MiBACT è ben rodato da decenni e si tiene in piedi su una struttura piramidale alla cui testa si trovano i direttori generali e i direttori regionali. Al di sotto, i soprintendenti ordinari nominati, dopo il concorso, dal ministro con mandato di tre anni. Nessun mandato, però, è irrevocabile, e all’amministrazione centrale è possibile cambiare posto a piacimento a chiunque. La retrocessione deve tenere conto della fascia di pertinenza, ma il trasferimento in una regione o in una città secondaria o a un ispettorato sono una punizione. Per non parlare dei soprintendenti ai poli speciali come quelli di Firenze e Pompei per i quali il declassamento implica un’importante penalizzazione economica. Meglio allinearsi, quindi. Perché rischiare?

Che il ministero abbia discrezionalità su trasferimenti e retrocessioni è sacrosanto, visto che il potere di sanzione è essenziale. Il problema, però, è che non esiste un criterio valutativo né un istituto collegiale e le retrocessioni sono discrezionali. Basta una critica o un commento sgradito e si rischia. Basta dire sì, invece, e si va avanti secondo un meccanismo che privilegia lo svuotamento della creatività e della competenza. A rendere più grave la cosa, l’incombenza sempre più soffocante della politica. Se la durata dei ministri è in media di due anni, a ogni rimpasto segue un giro di valzer. A cambiare non è soltanto il segretario generale (questa volta confermato, purtroppo, nella persona di Recchia), ma possono saltare anche i direttori generali.

E non finisce qui. I direttori regionali devono essere ‘graditi’ ai presidenti delle regioni, tanto più che con il Codice del paesaggio e dei beni culturali prendono parte alla stesura dei piani paesistici cosicché la loro figura, da coordinamento delle varie soprintendenze da sintesi tra le competenze statali della tutela e quelle regionali della valorizzazione, possono rivelarsi di compensazione tra gli interessi non sempre virtuosi che gravano sul territorio, con complicità anche dei singoli soprintendenti. Così sembra far pensare il silenzio di quella ai beni architettonici e paesaggistici di Venezia, Renata Codello, di fronte allo scempio quotidiano della grandi navi che invadono da anni la laguna (vedi Gian Antonio Stella il 25 settembre scorso sul Corriere). Esiste, poi, la situazione assurda dei direttori dei musei, attualmente semplici funzionari che non ricevono nessun scatto remunerativo malgrado le responsabilità civili e penali cui sono esposti, comandati dal soprintendente da cui dipendono senza l’autonomia professionale che gli spetterebbe.

È questa, la struttura folle ed entropica che sta distruggendo il ministero che più dovrebbe contribuire alla creatività e all’innovazione e in cui dirigenti ormai abituati a una discrezionalità priva di complessi si sentono liberi di partorire provvedimenti folli come la circolare n. 39. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il ministro Massimo Bray superate le turbolenze del Governo. Bray che ha da sempre dimostrato una sensibilità ben diversa. Il quale, per l’appunto, ha da poco insediato una commissione sulla riforma del ministero, quella sul cui operato la Segretario generale vorrebbe imporre la censura. Forse perché uno dei suoi compiti dovrebbe essere quello di ristrutturare il MiBACT secondo criteri di apertura, creatività e pluralismo contraddittori con una certa pratica del potere?

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